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L’Oracolo

 Per caso, a Rio de Janeiro, si ritrovano le tracce di uno degli oggetti più ricercati della storia. E’ fatto di metallo e ha la forma di una testa. Può dare indicazioni sul futuro generando un esagramma, che deve poi essere interpretato con l’aritmetica binaria.   Ha iniziato il suo viaggio circa duemila anni fa in Tibet, facendo tappa in Palestina. Arrivato nel Nuovo Mondo è stato preso in consegna dagli uomini pipistrello, Indios che comunicano con ultrasuoni e “vedono” nel buio. E’ stato chiamato in passato: il Baphomet dei Templari.   

Un etnologo faidatè, aiutato da una funzionaria del Jardim Botanico di Rio, un latinista d’esportazione, un narcotrafficante internazionale e una ambiziosa “Mae de Santo”, a capo della Macumba, si trovano coinvolti nello strano affare che ha luogo nella città carioca.   A loro insaputa sono sulle tracce di qualcosa di importante, che interessa anche i politici corrotti di Rio, l’Opus Dei e gli uomini-pipistrello.

Questi ultimi hanno un ruolo rilevante nella vicenda cambiando le carte in tavola all’ultimo minuto.

The Oracle

By chance, in Rio de Janeiro, traces of one of the most sought-after objects in history are found. It is made of metal and shaped like a head. It can give indications about the future by generating a hexagram, which must then be interpreted using binary arithmetic. It began its journey about two thousand years ago in Tibet, stopping off in Palestine. When it arrived in the New World, it was taken over by the bat men, Indios who communicate with ultrasound and “see” in the dark. In the past, it was called the Baphomet of the Templars.

A do-it-yourself ethnologist, aided by a pretty employee of the Rio Botanical Garden, an expatriate Latinist, an international drug trafficker and an ambitious “Mae de Santo”, head of the Macumba, find themselves involved in the strange affair taking place in the city of Rio. Unbeknownst to them, they are on the trail of something important, which also involves corrupt politicians in Rio, Opus Dei and the bat-men.

The latter play a significant role in the story, changing the game at the last minute.

Primo capitolo – La Cidade Maravillhosa

Il protagonista sulla spiagga di Ingà (Brasile) e sullo sfondo il Museo di Arte Contemporanea

 Le questioni di sentimento sono importanti. Possono indurre a scelte che altrimenti non sarebbero quasi mai prese in considerazione. Essere coinvolti, per esempio, in infinite e sfibranti discussioni su chi abbia cominciato a litigare, oppure di chi sia mai la colpa dei ricorrenti e inevitabili problemi che la vita di coppia produce con generosità. Tutto questo potrebbe indurre il (oppure la) partner a mollare tutto e comprare un volo per i tropici. Non era questo il caso di Ettore. In primo luogo non aveva una vita di coppia (con gli inevitabili dolci tormenti), e poi voleva trasferirsi al Tropico del Capricorno perché il clima è migliore che in Europa; il tramonto non è così malinconicamente lungo e la sabbia è bianca e non ti scotta i piedi. Poi ci sono le noci di cocco e tutto il resto. Il trasferimento non era definitivo, giusto il tempo di vedere se l’idea che stava da un po’ monopolizzando buona parte delle sue connessioni sinaptiche aveva qualche chance.

   A prescindere da quelle riflessioni, l’Ihla do Gobernador si stava ingrossando sotto la pancia del Boeing mentre atterrava a Rio de Janeiro; alla sua destra, oltre l’oblò, lo sconfinato tessuto urbano della Città Meravigliosa acquistava in nitidezza e particolari. Il Morro do Corcovado svettava sulla foresta di Tijuca, il simbolo internazionale della città di Rio era sempre in piedi sulla vetta e con le braccia aperte, per la gioia dei turisti e la speranza (conforto) dei credenti. I non credenti, avendo da tempo rinunciato alla speranza, avrebbero forse preferito una pala eolica (produce corrente) ma della questione non si era interessato nessuno, almeno fino a quel momento. Il carrello dell’aereo che toccava la pista annunciava la fine del volo intercontinentale, mentre la voce del comandante diceva che la temperatura al suolo era trentasette gradi. Una certa differenza rispetto ai quattro gradi di Londra il giorno prima. C’era anche un’altra ragione per il viaggio a Rio: il suo amico Daniel; era un mezzo farabutto ma poteva essergli utile per il progetto.
   Era partito da Londra perché i last minute delle agenzie italiane erano convenienti soprattutto per loro, mentre a Londra erano convenienti anche per chi viaggiava. In quella città viveva una sua amica che si era mostrata sensibile alla visita di Ettore. Quando le buone ragioni per fare una cosa si accumulano è sempre un buon segno. In ogni caso, da Bologna a Heathrow era stato un unico breve sonno. Da Heathrow a Gatwick era stato più movimentato. Lei era stata molto carina, gli aveva offerto di portarlo a Gatwick con la sua auto. Nell’oscurità della serata anglosassone avevano percorso molti chilometri per le campagne, parlando all’inizio dell’attività letteraria di lei finendo poi per discutere sul chi avrebbe dovuto portare il preservativo. La soluzione l’aveva trovata lei prendendone uno dal cruscotto dell’auto, dimostrando con questo la maggiore previdenza (consapevolezza?) del suo genere. Tutto si era risolto con il tacito accordo che la multa eventuale l’avrebbe pagata lui, visto che l’automobile era quasi di sicuro in divieto di sosta. L’ultimo romantico bacio era stato dato davanti all’aeroporto internazionale. Si sarebbero sentiti presto, il volo per il Brasile lo stava aspettando.

   Il rivoletto di sudore che colava sulla schiena di Ettore lo sollecitava a cercare un taxi. Uscito dall’aeroporto aveva ricevuto in pieno il colpo di maglio del sole tropicale. Comunque a Rio non pioveva e questo era un passo avanti. E magari non erano così severi con il divieto di sosta. Daniel che gestiva con soddisfazione un Cafè etilico-letterario a Leblon gli aveva consigliato di cercare un appartamento a Barra da Tijuca; oltre a essere un bel posto, diceva, era meno caotico di Copacabana oppure Ipanema, dove la vita era diventata febbrile. Il tassista non sembrava perfido, anche se quasi di sicuro lo avrebbe fatto girare un po’ in tondo prima di portarlo a destinazione. Visto che il cambio della valuta Euro-Real era conveniente poteva in ogni caso rilassarsi e godersi il viaggio. Daniel, un po’ per scherzo e un po’ sul serio, gli aveva consigliato anche di trovare un appartamento in un condominio con campo da calcetto, perché sosteneva che a quelle latitudini dopo la grigliata era prassi digerire con una partitella. L’appartamento che aveva affittato aveva solo un balcone con vista sull’oceano, che era meglio.

   Stavano viaggiando sulla Linha Vermelha verso il centro, che tutti conoscevano come la Cidade. A sinistra c’era l’immenso quartiere universitario, mentre a destra c’era la Favela di Marè, che era un primo assaggio dell’amore per le contraddizioni di quell’immenso bel paese. Mentre il tessuto urbano scorreva fuori dai finestrini e sotto le ruote del taxi e ispirata dalla favela, la convinzione di lavorare sul materiale umano e spirituale delle favelas si consolidava. Trovava anche che il colore giallo del Taxi, che prima o poi lo avrebbe portato a Barra da Tijuca, avesse favorito la sua ispirazione. Avevano appena lasciato la Linha Vermelha e stavano procedendo lungo l’Avenida Presidente Vargas, in direzione dello svincolo per Santa Teresa e Botafogo. Lo sciame neurale, quegli ottantacinque miliardi circa di neuroni, che ognuno si porta dentro la scatola cranica e che sforna comportamenti emergenti (come qualsiasi sciame) gli stava suggerendo anche che aveva fatto bene a scommettere sul progetto etnologico-animista che lo perseguitava da un po’. Quarant’anni vengono una volta sola nella vita, come tutti gli altri del resto, ma è proprio in quel momento che cominci a farci caso. Il momento di provarci era quello. Fosse andata male, amen. Almeno si sarebbe fatto una vacanza ai tropici; anche se non era davvero un’idea originale. Erano appena sbucati dal tunnel di Santa Barbara e a sinistra, molto in alto, svettava il Corcovado. Stavano attraversando lo splendido quartiere di Laranjeiras, pieno di villette in stile coloniale, dolcemente immerse nella vegetazione tropicale che sembrava invadere con tatto, delicatezza e profumo l’abitato. E inevitabilmente alla fine della discesa erano sbucati a Botafogo.
   A Rio, come in diverse città del sud dell’emisfero boreale, il codice della strada era più un optional che una regola. Un qualcosa che era utile conoscere, ma che non andava necessariamente rispettato. Anche se a Roma o Palermo non c’è il Pao de Acucar che cattura completamente l’attenzione mentre percorri la curva della piccola spiaggia prima di imboccare l’Avenida Principessa Isabela per andare a Copacabana. Qui come là, un semaforo rosso non significa necessariamente che ci si debba fermare. Basta rallentare, dare un colpo di clacson e andare. A meno che, naturalmente, qualcuno che arriva da un’altra direzione non abbia avuto in quel preciso istante la medesima idea. Ma se si sta attenti la cosa funziona. Tutti lo sanno e tutti stanno attenti e il traffico scorre sempre fluido; e senza incidenti. E soprattutto, nessuno ha la spiacevole sensazione di fare una cosa così stupida come stare fermo davanti a un semaforo rosso mentre non c’è nessuno dall’altra parte.

   Passata Ipanema e lasciata indietro la laguna Rodrigo de Freitas, che oltre al primato di bellezza detiene anche quello di laguna più inquinata del mondo, il tassista aveva deciso di prendere l’Avenida Niemayer, uno dei pochi luoghi geografici al mondo, per quel che se ne sa, intitolati a una persona ancora in vita. La splendida vista sull’oceano stava suggerendo a Ettore che magari quella vecchia volpe dell’editoria di Daniel gli avrebbe dato qualche dritta per la sua idea, sempre che non fiutasse inconvenienti, soprattutto per se stesso. Queste cose le stava pensando mentre osservava un grappolo di deltaplani scendere dalla Pedra de Gavea e planare dolcemente verso la Spiaggia dei Cetrioli. Chissà perché gli veniva da pensare che Bologna in quell’istante era probabilmente avvolta nella nebbia. Ma tanto lui era lì. Anzi non c’era già più lì perché era entrato nell’ennesimo tunnel che da un certo punto in poi aveva smesso di contarli, per quanti erano. Passavano veloci come le cifre del tassametro che continuava a scorrere insensibile anche dentro ai tunnel. In ogni caso appena usciti erano finalmente arrivati a Barra da Tijuca. In uno dei tanti canali di quel luogo idilliaco, un paio di ragazzi giocavano con le moto d’acqua davanti a un ristorante dal nome improbabile: ‘La Gondola’. Poco dopo il taxi si era fermato davanti al numero 570 di Rua Olegario Marcel, in perfetto orario per l’appuntamento con Mr. Renato, il proprietario dell’appartamento che aveva affittato. Mr. Renato, l’advogado, era esattamente come Ettore si aspettava che fosse dopo avergli parlato al telefono da Londra. Piccolo, paffutello, allegro e vampiro. Voleva (e aveva ottenuto) una cauzione di quattrocento dollari americani, neppure Reais… dollari, per consumi eventualmente alti di elettricità e telefono nel periodo. Ma comunque anche l’appartamento era come se lo aspettava. In un condominio con guardia armata in Avenida Sernambetibo, il lungomare di Barra. Dal terrazzo si vedevano l’oceano e la Pedra de Gavea, e l’aria condizionata funzionava.

 Una spiaggia conchiglifera

   ─ Gattina, mi porti un’Agua de coco?
   Daniel Lopes Da Silva aveva cinquanta e passa anni, ma ancora strizzava l’occhio alle ragazzine che potevano essere sue nipoti più che sue figlie, mentre il sole picchiava ancora duro sul Posto Due della spiaggia di Barra da Tijuca. E questo nonostante fossero passate le quattro del pomeriggio e in Europa fosse pieno inverno.
   ─ Ben ghiacciata, mi raccomando.
   Alla fine la ragazzina gli aveva fatto un sorriso per toglierselo di torno e lui si era sentito appagato. Aveva passato i primi cinquant’anni della sua vita tra Lima e Bologna, vendendo libri di design a Architetti e a qualcun’altro. Poi, probabilmente in seguito a una deriva esoterica, si era trasferito a Rio, dove aveva fondato l’Oficina Cultural. In realtà era il secondo nome del Cafè Miranda, dove spacciava libri sui Tarocchi, sull’Astrologia, bevande alcooliche varie e organizzava concerti di musica sudamericana. Qualche volta anche musica europea, ma del sud. Ettore aveva il sospetto che ci fosse anche dell’altro, ma non se le sentiva di immaginare cosa.

  Il triangolo di scorza di noce di cocco era caduto sulla sabbia bianchissima, che aveva il pregio di non scottare la palme dei piedi, al contrario di quella di Rimini. Come facesse il barman a calibrare con precisione i tre colpi di machete, era un mistero che prima o poi Ettore avrebbe affrontato. Per il momento preferiva concentrarsi sul colore delle cannucce infilate nella noce, verdissima e dall’aspetto invitante e sul buon sapore del latticello trasparente. Almeno supponeva che fosse trasparente per il fatto che era gradevole e dolcissimo. Quando era guasto era gialliccio. La spiaggia di Barra da Tijuca è lunga ventotto chilometri e normalmente non molto profonda. In quel punto però sembrava allargarsi e penetrare nell’oceano. Considerando poi che al largo c’era una graziosa isola piena di vegetazione, che verso Sao Conrado il mare era pieno di surfisti, che c’era il promontorio Arpoador ben visibile e che, da li a là, la spiaggia era piena di gente che chiacchierava e prendeva il sole, sembrava proprio di essere in vacanza. Anche se era solo martedì. Quel paese era davvero pieno di cose meravigliose.

   ─ Ma che ti frega del VooDoo…
   L’Agua de coco che percolava nella pancia di Daniel gorgogliando.
   ─ Niente, mi sembrava solo un’idea carina.
   ─ Ma non sei venuto a fare una vacanza? Che c’azzecca il VooDoo? Dovresti pensare alle ragazze.
   ─ Mah… sai… vedi una favela e ti viene un’idea.
   Cento metri verso il promontorio Arpoador, Telemar, l’equivalente di Telecom in Italia, stava approntando una tensostruttura che il ventidue aprile di quell’anno avrebbe ospitato i festeggiamenti per il cinquecentenario della scoperta del Brasile. Probabilmente qualcuno avrebbe intascato tangenti per quello, ma in ogni caso l’effetto era scenograficamente superbo.
   ─ E poi tutto quel brulicare di vita caotica (nella favela) ti da l’idea della creazione, dell’opportunità. ─ Aveva detto Ettore sempre parlando delle favelas. Avrebbe voluto aggiungere altro ma Daniel lo aveva preceduto.
   ─ A me sembra che sia solo un problema di jet lag. Dopo una caipirinha e una buona dormita vedrai la questione in modo diverso. Gattina! Una caipirinha per il mio amico che ne ha bisogno. E un’altra birra per me. ─ Daniel a voce alta strizzando di nuovo l’occhio alla ragazzina del bar.
   Mentre, senza dare nell’occhio, l’ombra proiettata dal corpo tozzo di Daniel si allungava verso est, in ossequio al fatto che il sole stava calando verso ovest anche se era ancora bello tosto, la ragazza del bar era arrivata con la caipirinha e la birra. La brezza dal mare soffiava regolarmente e Daniel aveva tolto il cappuccio all’inverti-thermos. Ettore non sapeva perché gli era venuto in mente il nome inverti-thermos, per descrivere il contenitore di polistirolo (almeno supponeva) a forma di bottiglia di birra che proteggeva dal calore il prezioso liquido biondo. Birra che Daniel, in quel momento, stava tracannando. Con certezza Ettore era affascinato dalle meraviglie di quel paese, come per esempio le favelas e gli inverti-thermos. Ma andava bene anche così. Anzi probabilmente andava meglio così.
   ─ No Daniel, non credo che cambierò idea. Penso che sia piuttosto una specie di amore a prima vista. – Continuava insensibile Ettore, mentre auscultava la birra finire nella pancia rotonda di Daniel mentre lui sorseggiava con parsimonia la caipirinha. Cominciare a bere alcool alle quattro del pomeriggio non era un’idea salutare, né ai tropici né in Europa.
   ─ Credo che dovrei ascoltare questa sensazione. Anzi penso che tu, che conosci il mondo intero da queste parti, dovresti essere così gentile da darmi un consiglio.
   Daniel si stava grattando la testa come se si stesse concentrando su quello che aveva detto Ettore, mentre lui non poteva fare a meno di notare la mammella di Daniel grassoccia che cascava proprio sotto l’ascella non abbronzata. Per fortuna priva di peli (l’ascella), aveva pensato ma non detto Ettore, perché in caso contrario sarebbero stati sicuramente sudaticci e poco piacevoli a vedersi. Un’altra cosa che Ettore aveva pensato ma non detto (distratto dall’ascella sudata) era che nemmeno per un istante Daniel stava pensando e una risposta coerente. Per questo non si era stupito quando Daniel gli aveva detto, dopo aver smesso di grattarsi la testa, che proprio perché erano amici gli avrebbe presentato qualcuno. Questo qualcuno gli avrebbe fatto cambiare idea alla svelta. Così magari si sarebbe concentrato sulla vacanza e non su quelle minchiate esoteriche.

   Il sole, con la calma (apparente) che lo contraddistingue da qualche miliardo di anni, continuava sempre a procedere verso ovest, facendo allungare le ombre verso est. A un certo punto si erano resi conto, Ettore, Daniel e tutta l’altra gente che stava sulla spiaggia da lì al promontorio Arpoador, che la notte sarebbe arrivata con la consueta rapidità tropicale. Quindi per non farsi trovare impreparati, avevano deciso di avviarsi verso casa, parlando di qualche stupidaggine mentre camminavano verso il parcheggio. Daniel, mentre saliva sulla sua auto di colore chiaro, aveva detto che si sarebbero sentiti non appena avessero avuto qualcosa da dirsi (in relazione alla ansie esoteriche di Ettore). Magari nel mentre avrebbero approfittato per organizzare grigliate e, perché no, qualche incontro erotico interessante. Ettore aveva deciso di andare a piedi. Dal posto due al posto sei, che era proprio di fronte a casa sua, c’era circa un chilometro; il che significava una decina di minuti di cammino nel tardo pomeriggio tropicale. Era partito con la luce ancora piena del giorno e ora, mentre cercava di attraversare Avenida Sernambetibo senza farsi investire dai Cariocas in automobile, era già notte fatta e finita. Vicino al suo condominio c’era la sede di una delle tante sette che stanno sulla linea di confine tra esoterismo e religione. Sopra la porta era scritto a grandi lettere nere: ‘CULTO DOS MILAGRES’. L’aveva guardata con curiosità perché gli faceva venire in mentre Padre Pio da Pietralcina. Poi si era diretto alla padaria a fianco, forse faceva in tempo prima che chiudesse a rifornirsi di birra. Poi, mentre entrava nel palazzo, aveva salutato con un cenno la guardia nera in portineria e era salito nel suo appartamento. Si era disteso sulla sdraia in terrazzo convinto che gli effetti del jet lag si stessero facendo sentire. Ma poteva anche dipendere dal fatto che non dormiva da quarantotto ore.

 Le strade di Rio

   L’influenza del subcontinente nordamericano era chiarissima nell’architettura degli edifici di Avenida Chile, così come sui modelli di automobili che si potevano noleggiare. Questo pensava Ettore, mentre si rendeva conto che la sua mente era ormai sgombra dai residui del tempo europeo di un paio di giorni prima. E con attenzione fresca e mente libera, ammirava il paesaggio urbano, senza perdere d’occhio naturalmente le intenzioni degli altri umani, che in quella tarda mattinata erano alla guida delle numerose automobili intorno a lui. La Nova Catedral faceva una certa figura, col suo bel tronco conico alto novantasei metri e dotato di una scalinata che faceva invidia ai templi Incas, che tra l’altro stavano proprio in quella parte del pianeta. Pareva che potesse contenere fino a ventimila persone. Chissà che aria viziata con quel caldo. Il fatto poi che la Chevrolet avesse il cambio automatico, gli ricordava vagamente di aver letto un articolo di qualche giornalista, che evidentemente non aveva di meglio da fare, che era più che certo del fatto che gli italiani potrebbero considerare la mancanza della cloche come un insulto alla propria virilità. Lui lo trovava comodo, anche perché c’erano un sacco di costruzioni in vetrocemento che lo distraevano. La cosa gli aveva anche ricordato la sua amica di Londra, per via del fatto che lì avrebbero faticato non poco a trovare un posto tranquillo.

   Rio de Janeiro ha da sempre una vocazione per gli eccessi. Possiede la laguna più bella, ma anche più inquinata, del mondo. Ha più gallerie che qualsiasi altra città e certamente più mignotte per chilometro quadrato, in relazione ai turisti, che qualsiasi altro luogo al mondo. Ma anche più alberi per abitante. La sede della Petrobras, sulla destra poco prima dell’incrocio con l’Avenida Rio Branco, teneva alta la media. Sembrava fatta con il Lego. Una serie di cubi di cemento sovrapposti con dentro alberi giganteschi. Ma faceva un certo effetto, proprio come il Lego oppure i giardini pensili di Babilonia. Si era sentito in dovere di svoltare a sinistra, naturalmente passando col rosso perché le automobili premevano dietro, anche se con la prudenza concessa ai neofiti. Poi aveva proseguito con noncuranza facendo un paio di svolte a caso finché non era stato costretto a fermarsi davanti alla Cafeitaria Colombo. Che poi era il luogo dove la gente che ritiene di contare qualcosa da quelle parti si sente obbligata a frequentare. Si diceva che fosse un luogo impreziosito da certi specchi importati dall’Europa il secolo scorso. Già non aveva nessun significato pensare al secolo scorso, che era finito ieri l’altro, figurarsi poi gli specchi europei. E figurarsi la gente che pensava che tutto questo avesse un significato. Comunque le ragazze che stavano li non erano niente male. Forse valeva la pena di frequentare il luogo, a prescindere. In ogni caso avrebbe riflettuto sulla questione, pensava, mentre svoltava a destra. Ma aveva smesso subito di pensare alle ragazze perché si era trovato di fronte alla chiesa della Candelaria. Che è poi come dire un’immagine surreale. Al centro di una immensa e caotica Avenida, circondata da grattacieli costruiti nel peggior stile nordamericano (cemento, vetro eccetera) era apparsa, come una visione metafisica, la Igreja de Nossa Signora da Candelaria. Stava là, immersa in una dimensione senza tempo e in uno spazio sottratto con leggerezza a tutto il resto. Memento di un’epoca in cui la più febbrile attività era aspettare la prossima caravella dall’Europa. Ma dato che nel tempo in cui Ettore aveva pensato tutto questo, partendo dal momento in cui aveva premuto il freno e accostato in seconda fila per godersi lo spettacolo della Cattedrale, almeno tre Boeing erano atterrati all’aeroporto internazionale, aveva pensato che forse era un bene darsi una mossa e ripartire. Anche perché i Cariocas suonavano in continuazione il clacson infastiditi dalla sosta contemplativa.

   Ancora non sapeva perché, ma quel luogo gli faceva venire in mente un crocevia. Non un incrocio con semaforo che tra le altre cose, come per esempio l’ora legale, era stato inventato dai nordamericani pragmatici fino allo sfinimento, ma un vero crocevia. Un luogo dove passa e si incontra la gente e dove secondo gli africani passano e si incontrano anche gli spiriti. E quello infatti, il crocevia, è il posto giusto per piazzare le offerte e i doni per avere qualcosa in cambio. E siccome questa venalità pagana non era mai andata persa, pensava che tutto sommato la chiesa stava bene lì dov’era e lui si sarebbe diretto verso Barra da Tijuca. Daniel gli aveva detto, tra le altre cose, che a Niteroj c’era un posto che si chiamava la Casa della Macumba, che oltre a vendere materiale rituale era anche un punto di incontro e di scambio di informazioni. Sperava di trovare là quello che stava cercando, anche se ancora non aveva idea di cosa fosse. Ci sarebbe andato il giorno dopo però. Ora aveva voglia di passeggiare sulla sabbia conchiglifera di Barra, che era meglio di quella della riviera romagnola, almeno per il colore. Non appena parcheggiata la Chevrolet aveva visto che c’era poca gente e la spiaggia era invitante. Dopo, a casa, avrebbe controllato la posta.

 Niteroi

   Il ponte di Niteroi è una fettuccia di asfalto lunga quattordici chilometri che taglia in due la baia di Guanabara e collega Rio de janeiro a Niteroi. Ê sospeso su pilastri ficcati nel fondale marino e sotto al punto di maggior altezza (è convesso) imbarcazioni di una certa dimensione possono transitare. Il pedaggio si paga in una sola direzione: da Rio a Niteroj. Un’altra questione su cui riflettere prima o poi. A dire il vero una mezza idea Ettore l’aveva. Nel sedicesimo secolo o giù di lì, Arariboia che era il capo degli Indios di allora, aveva aiutato i portoghesi a cacciare i francesi da Rio. Probabilmente i Cariocas di allora, come pegno di gratitudine, avevano esonerato lui e i suoi discendenti dal pagare qualsiasi tassa o balzello per attraversare la baia di Guanabara. Nella futura Rio de Janeiro era rimasto il beneficio ma si era perso il perché, nessuno infatti sapeva spiegarglielo. Per distrarsi da questi inutili pensieri stava osservando l’aliscafo alla sua destra che scivolava veloce producendo baffi di spuma bianca su un mare calmo e azzurro. E senza dover pagare pedaggio; anzi raggranellando valuta locale.
   Senza considerare di buon auspicio il fatto di aver trovato parcheggio subito e proprio vicino alla statua del famoso capo Indio, si era avviato verso quella che supponeva fosse l’avenida centrale. Partiva dalla piazza del molo di attracco dei traghetti subito dopo le biglietterie. Camminando verso non sapeva dove, aveva la sensazione di immergersi sempre più in un mondo caotico e colorato già alle dieci di mattina. La piazza e l’avenida erano delimitate da bancarelle dove si vendeva di tutto: batterie al litio per orologi di plastica giapponesi, piccoli elettrodomestici a batteria e altri oggetti di difficile identificazione; poi c’erano gli odori. Dalle Cafeitarias, usciva il profumo dei salgadinhos fritti che cercava di sopraffare il puzzo di piscio proveniente dai portici ai lati dell’avenida. L’odore del sudore dei cariocas che contrattavano, litigavano oppure organizzavano orgasmi diffondeva nell’umidità oceanica dell’aria dando il suo contributo alla produzione dell’odore tipico e unico di Niteroj. Minuscole gocce d’acqua stillavano giorno e notte dai condizionatori appesi agli edifici in stile coloniale costruiti sopra ai portici. Il rigagnolo d’acqua che scorreva ai lati dell’avenida, alimentato dalla pioggerella artificiale contribuiva all’aumento del tasso di umidità dell’aria e al sostentamento di generazioni di insetti; oltre che popolare il database dei rumori di Niteroj, che ormai era diventato un quartiere della città carioca.
   Per distrarsi dal rumore bianco della città, Ettore aveva chiesto a un tizio in uniforme davanti a una banca informazioni sul come arrivare alla Casa della Macumba. Seguendo le indicazioni era arrivato in un vicolo dove il rumore e gli odori di Niteroj si propagavano con minore intensità. Forse per chiedere conferma delle indicazioni oppure forse per qualche altro motivo esoterico era entrato in una bottega di pedicure. Due minuti più tardi si era ritrovato seduto su una poltrona girevole di metallo con la vernice scrostata e il sedile in plastica simil-pelle; i suoi piedi erano tra le mani di una graziosa mulatta. A quel punto protestare sarebbe stato inutile e anche un po’ maleducato, per cui si era messo a osservare la ragazza che con i piedi ci sapeva fare e inoltre era uno spettacolo migliore dei muri scrostati; gli ricordavano gli ambulatori medici della sua infanzia in Italia. Aveva i capelli raccolti in una crocchia dall’aspetto rilassato, erano neri e lucidi. La canottiera invece era bianca e i lineamenti del volto gentili e regolari. Il colore della canottiera non aveva impedito a Ettore di stabilire che i capezzoli della ragazza avevano la forma e la dimensione di un grano di pepe nero; quasi di sicuro anche il colore.
   ─ Come mai da queste parti gringo? ─ Aveva chiesto la ragazza sollevando lo sguardo come per verificare se Ettore le stesse guardando le tette.
   ─ Si sente molto che sono straniero?
   ─ Solo quando parli. ─ Praticamente sempre allora, aveva pensato ma non detto Ettore.
   ─ Non è che sai dirmi dove posso trovare un Pai de Santo?
   ─ Un Pai de Santo non saprei… posso darti il mio numero di telefono, vedi mai che ti annoi questa sera. ─ Il bianco dei denti della ragazza che sorrideva faceva il paio con quello dei suoi occhi. Anche a sforzarsi Ettore non riusciva a vedere nessuna carie.
   ─ Magari mi sai dire dove trovo la Casa della Macumba?

 Mamy Wata

   Mamy Wata aveva il corpo massiccio, la pelle nera e lucida. Aveva anche l’aspetto di una donna che prende a sberle il marito tutte le mattine prima di colazione, giusto per ricordargli chi comanda. Era dietro al banco della Casa della Macumba con le mani appoggiate ai fianchi e guardava Ettore come se pensasse: ─ e questo da dove sbuca? In quel momento non c’era nessuno in negozio; per dissimulare l’imbarazzo che provava nel sentirsi così osservato aveva biascicato un: ─ cerco un regalo per la mia amica. ─ Mamy Wata non aveva neppure fatto finta di credergli e lo osservava mentre curiosava tra gli scaffali, che erano pieni di oggetti indispensabili per l’efficacia dei riti voodoo. Le figure umane di stoffa in cui piantare gli spilli non gli sembravano un regalo adatto, neanche per un’amica che non aveva, per cui aveva ripiegato su un piatto di terracotta dentro cui si dovevano gettare sassolini se non piccole ossa (umane). Le figure che disegnavano dovevano pi essere interpretate da un Pai de Santo oppure da una Mai de Santo oppure, in alternativa, da chiunque si dicesse in grado di farlo; era decorata con disegni geometrici carini. Aveva aggiunto alla spesa una mezza dozzina di ceri bianchi per mettere Mamy Wata di buon’umore. Mentre pagava, sottolineando il fatto che la richiesta era del tutto priva di importanza, le aveva chiesto se per caso conosceva un Pai de anto.

 Il Pai de Santo

   Mamy Wata gli aveva detto di trovarsi sul lungomare della spiaggia di Ingà alle otto precise di quella sera. Avrebbe incontrato una persona che faceva al caso suo. In attesa dell’appuntamento aveva deciso di fare il turista, incoraggiato dalla temperatura che era in quel momento di quaranta gradi; almeno così segnava il pannello a led rossi a due passi dal lungomare di Niteroj. La spiaggia di Boa Viagem era più piccola e articolata di quella di Ingà, e poi era più vicina. La sabbia era più scura di quella di Barra da Tijuca (sembrava quella di Rimini), la profondità della spiaggia era di pochi metri e l’andamento a falce incorniciava una piccola baia, il colore dell’oceano era scuro, influenzato dalle rocce di granito del piccolo promontorio che faceva da contraltare alla baia. La si poteva raggiungere tramite un piccolo declivio erboso. Al centro dell’insenatura c’era una piccola isola, vicina alla terraferma, su cui era costruito un convento che era raggiungibile attraverso un ponticello, sotto il ponte erano ormeggiate barche di pescatori. Sul promontorio c’era il Museo di arte contemporanea. Il fatto che quel museo ospitasse arte contemporanea, poteva essere dedotto dalla sua forma. Un gigantesco disco volante parcheggiato (in fretta? Per sbaglio?) sulla roccia granitica del promontorio. Per distrarsi da tutto questo, aveva comprato spiedini di gamberi, pane e tapioca, bianca come la neve. Gli sembrava una buona idea mangiare gamberi e tapioca per ammazzare il tempo in attesa dell’appuntamento serale con il Pai de Santo. Solo incidentalmente e per un attimo aveva pensato che in Europa è il tempo che ammazza le gente, non viceversa. Il Museo di arte moderna e la statua di Arariboia erano il simbolo di Niteroi. Ettore li trovava più interessanti del simbolo di Rio, quello sul Corcovado.

   ─ Dimmi una cosa Torre…
   ─ Ettore.
   ─ Eh?
   ─ Il mio nome è Ettore.
   ─ Ma certo. Comunque dimmi una cosa Torre. Perché non ti limiti a fare il turista come tutti gli altri? Un giretto al Pao de Acucar, una visita al Corcovado e magari un salto al mercato Hippy di Ipanema. Compri qualcosa e guardi il culo delle ragazze. Meglio che ficcare il naso in cose di cui, in ogni caso, non capiresti niente, non trovi?
   Forse scosso dal fatto che la notte era arrivata in modo così repentino, così diverso dalla monotona malinconia dei tramonti europei, lì per lì Ettore non aveva saputo cosa rispondere. Per riprendersi si stava guardando intorno. La spiaggia di Ingà, ormai deserta, era illuminata dai lampioni del marciapiede, un metro sopra la spiaggia stessa. I lampioni illuminavano anche diversi ratti, grossi come gatti, mentre cercavano qualcosa per cena tra i rifiuti abbandonati sulla spiaggia. Jose Antonio (detto Zetò) era di bassa statura, di razza indefinibile e con la pelle scura. Una spruzzata di bianco sulle tempie e la pancetta abbondante lo facevano sembrare più vecchio di quanto non fosse in realtà.
   ─ Vedi Antonio…
   ─ Zetò… –
   ─ Scusa? –
   ─ Chiamami Zetò. –
   ─ Ma certo. Comunque ti stavo dicendo, Antonio, che non ho la pretesa di capire i vostri misteri, vorrei solo documentarli.
   Con questo volendo sottolineare lo scopo documentativo anche se lui sperava di guadagnarci qualcosa.
   Difficile stabilire se fosse stato per disprezzo, oppure per i molti fagioli mangiati quel giorno, ma l’unica risposta che Ettore aveva ottenuto era una scoreggia, che il Pai de Santo Jose Antonio (detto Zetò) aveva emesso proprio mentre si allontanava, senza aggiungere altro.
   Tutto sommato la giornata non era stata poi del tutto negativa. Aveva il numero di telefono di una simpatica pedicure e aveva passato un bel pomeriggio sulla spiaggia, tra tapioca e spiedini di gambero. Questo pensava mentre passava con l’auto da Copacabana diretto a Barra da Tijuca. A quell’ora, il lungomare era ancora pieno di turisti, bancarelle e poliziotti. Più tardi, verso le tre del mattino, si sarebbe riempito di viados e prostitute, seduti sui cofani delle auto parcheggiate, con le tette al vento, cercando clienti. Poco dopo l’Hotel Hoton e circa all’altezza dell’Help, una delle discoteche più conosciute al mondo, un sacco di gente passeggiava per il mercatino che tutte le sere, fino a mezzanotte, colorava quella parte della passeggiata. Mentre entrava nel quartiere Arpoador, dirigendosi verso Barra, pensò che Rio era davvero grande.
   Mentre rallentava, uscendo dall’Avenida Sernambetibo per entrare nel condominio dove alloggiava, aveva avuto la sensazione che qualcosa fosse diverso dal giorno precedente. Qualcosa che gli era sfuggito il mattino uscendo. Fermandosi per meglio osservare il Savoir Vivre (il suo condominio) aveva capito cos’era. La scritta a grandi caratteri neri era diversa dal giorno prima. Ora c’era scritto: ‘RENOVACAO ESPIRITUAL’. Non si ricordava cosa ci fosse scritto il giorno prima, ma era certo che fosse diverso. Curioso aveva pensato, mentre saliva con l’ascensore dal garage seminterrato. Dopo la Caipirinha, ma prima di lavarsi i denti, aveva controllato l’email. C’era un messaggio di Daniel: ─ Chiamami domani in ufficio, ho un contatto.

To be continued…